I sogni dei grandi

“Dove sono andati a finire i sogni che avevamo? Tutto quanto era stato racchiuso nelle pagine di una lettera in cui dicevamo l’uno all’altra ciò che avremmo fatto di noi, e delle nostre vite. Cosa ne è stato di quei voli che faceva la testa, ogni volta che insieme guidavamo lo sguardo di là dai palazzi di una piazza isolata, e ci pareva di vedere il mare. Si è cresciuti, direbbe qualcuno. Lo stesso a cui è venuto in mente di impartire quella stridente lezione per cui i sogni appartengono soltanto alle menti più fresche, e gli adulti ne siano immuni. Il tempo deve avere un bel daffare per rimuovere quei bastimenti sconfinati di aspirazioni mancate, di utopie sempre verdi, e illusioni aggrovigliate nella testa di chiunque si sia ormai bevuto la storiella che la giovinezza, improvvisamente, finisce. E che prima o poi si debba atterrare da qualche parte, con una valigia tascabile in cui si è tenuta qualche emozione da viaggio, e lo stretto indispensabile per tirare avanti una sessantina d’anni in totale comodità, di modo che neppure ci sfiori l’idea di tornare indietro, e recuperare quanto è stato consapevolmente dimenticato. Che infine si debbano saldare i piedi al terreno, e farla finita col divagare scriteriato di chi ha null’altro da perdere che qualche notte di bagordi e vino. Perché in fondo si è stati giovani tutti, ma poi passa. Ci siamo convinti che sognare quando si è donne o uomini fatti, sia un lusso dei perdigiorno, un vezzo deprecabile a cui si aggrappano soltanto gli artisti o coloro i quali pensano che il lavoro non debba essere lo scopo ultimo di ogni esistenza.”

“Ma tu cosa proponi di fare allora?”

“Di sederci qui, per un po’: e guardare insieme quei palazzi.”

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Seduta

Vedesse quello che io vedo, chiunque avrebbe meraviglia di quanto la normalità possa radicarsi negli occhi ed i sensi di chi ti osserva. L’esatto modo in cui ti siedi si ripete ogni giorno entro contorni inflessibili, ma ogni giorno indurrebbe chiunque a volerne memorizzare i più labili mutamenti. Il tempo sembra non intaccare mai l’universo appartato in cui esisti con la tua sedia: e tutto quanto accade al suo interno è un mistero di gesti condannati ad appartenerti per sempre, e a te soltanto. Ti guardo, e imparo che un domani qualunque, fosse qualcuno diverso da me a vedere quello che io vedo, tu saresti ancora lì: a disegnare il tuo universo privato. Ed un altro, a cercare di prevederne la più piccola e inedita vibrazione, senza riuscire mai. Questo è il modo esatto in cui ti siedi: impercettibilmente, lo cambieresti per qualunque ragione al mondo, e rimarrebbe il tuo.

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Spento

L’irrequietezza non si arrese neppure alle tre del mattino, quando lo scrollio del suo dito smise di produrre le già impercettibili variazioni sullo schermo. Capì che la vita degli altri cominciava a fermarsi. L’ultima immagine era di qualche minuto prima, e non era meno ordinaria della collina poco fuori città che fotografavano tutti. Ma a quell’ora della notte ogni cosa era tanto più gradevole quanto più serrava i suoi occhi rassegnati, cosicché gli venne naturale imprimere con un tocco il suo anonimo giudizio su quella foto, ed aggiungerlo a quello di altri ottocentoventicinquemila. Scagliò esausta il telefono accanto al cuscino. A questo punto era solita sforzarsi di capire quale fosse la posizione più adatta per addormentarsi, ed era solita farlo da trent’anni. I lampioni attraversavano la finestra in pochi filamenti di luce, e in cuor suo pregava che gli operai della nettezza urbana dimenticassero di passare in fondo alla via, per non arrogarsi nuovamente il diritto di scegliere quando richiamare l’inizio del giorno. Non era poi questa un’illusione minore che quella d’aver rinunciato a rianimare quel rettangolo luminoso un’ultima intrepida volta. Il buio intanto ne aveva dilatato i contorni. Andò a tentoni con le mani sino ad afferrarlo: lo trovò ancora bruciante di ognuna delle distanze raggiunte nelle ore precedenti. Non se ne meravigliò. Era passato forse un minuto da quando si era liberata di lui, ma qualcosa scuoteva implacabile il suo bisogno di ritrovarsi in cima al proprio dito, e partecipare con questo di un’altra foto ordinaria. In quello schermo ancora spento poteva sentire il suo riflesso invisibile dimenarsi, per via dei morsi che la vita è solita sferrare quando si è soli. Sospirava e avvertiva il proprio affanno condensato sul vetro. Le fu chiaro il modo in cui la sua stessa esistenza si allontanasse da quella degli altri, tanto più aumentavano le tracce lasciate dai loro io virtuali. Eppure le cercava. Se intendesse infine seguirne di particolari, le era difficile riconoscerlo. Si domandò soltanto se a qualcun altro, come a lei, accadesse di perdere il senso di ogni incontrarsi, fintanto che bastasse uno schermo a dirsi presenti. Tenne in mano gli stessi dubbi assonnati per pochi attimi ancora. Poi riaccese lo schermo, e si addormentò.

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Dell’esistenza privata di ognuno

Il mestiere del Signor F., che per comodità chiameremo semplicemente F., era di amministrare la contabilità di un’azienda di modeste dimensioni poco fuori città. Ad F. piaceva il suo lavoro. Dal Lunedì alla Domenica, fino a tarda notte, e libero da orari di lavoro troppo regolari, aveva il compito di registrare le fatture d’acquisto su un modulo elettronico, tenere d’occhio le scadenze fiscali, schedare gli incassi, preparare una nota delle spese, e cosa ben più importante, gestire gli imprevisti. Poiché, seppur modesta, l’azienda per la quale lavorava F. non era certamente esente dal soffrire l’usuale grado di incertezza cui sono destinati taluni accadimenti commerciali. Ebbene, F. non doveva soltanto trovare una soluzione di bilancio ogni qual volta si verificassero: parte integrante del suo lavoro era prevederli, con un livello di accuratezza il più vicino possibile al danno effettivo. Il fatto che F. avesse in sé un’indiscussa e oltremodo demoniaca precognizione finanziaria, faceva sì che fosse davvero tagliato per questa particolare mansione. A onor del vero, si può dire gli fosse stata cucita addosso l’abilità di far di conto, come fosse la cosa più ingenua e spontanea dell’universo. Eppure, condannato dal saperci fare così bene, agli occhi degli altri F. conduceva un’esistenza dimezzata. Tacciato di vivere nella sola compagnia dei numeri che gli erano imposti, non godeva che di una stima piatta e distaccata da parte dei colleghi di lavoro, i quali guardavano alla sua vita come a quella di un robot da cucina, esatto e irreprensibile, mentre attendevano che una meccanica obsolescenza esaurisse infine quella sua abilità impersonale. Se non altro, per potersi crogiolare sopra il pressapochismo di una condizione di acre ostilità nei confronti di chiunque fosse migliore di loro.

Quanto però era oscuro ad ognuno, era la riservata conduzione degli affetti amministrata da F. nell’intimità dei luoghi a lui più cari. Nella sua camera, oltre a una scompaginata collezione di cartoline appese alle pareti, innumerevoli oggetti dall’aspetto esotico disposti sopra i mobili senza alcuna oculatezza, e taciturni strumenti in legno acquistati in chissà quale viaggio in solitaria, poteva respirarsi l’insistente aroma di una ricercata imprecisione. La sera, il colore delle pareti, volutamente discordante in più tonalità del blu, riluceva di un’illuminazione sommessa e avvolgente, per via dell’unica lampada calda relegata in un angolo. Nella penombra dal lato opposto era sistemato un letto disfatto, ed accanto una libreria alla quale F. poteva arrivare con il solo braccio sinistro, qualora fosse disteso fra le lenzuola. Nel comodino, una serie di libri impolverati chiedeva di essere letta senza ottenere apparentemente risposta, ma in una pazienza rassicurante. Una finestra dava invece su un giardino dall’aspetto e i colori deliziosi, ma questo F. non poteva saperlo con esattezza, poiché non vi si affacciava mai e guardava la sola cima delle piante dalla scrivania sulla quale non di rado sedeva, insieme a una penna ed un foglio. A tratti, la stanza rivelava un disordine persino metodico, la cui attenzione dedicatagli faceva sì che non eccedesse mai nell’incuria. Era altresì evidente come niente della vita inconfessata di F. possedesse un numero: pareva invece che ogni cosa, nella stanza, disponesse di sé in modo libero, ma concorresse insieme alle altre a ruotare armoniosamente attorno a lui, quasi a proteggerlo in un vortice breve. Quanti amori partecipassero di quella danza era difficile a dirsi, poiché erano tante le forme assegnate all’amore dal signor F., e non era inusuale che si discostassero da quelle di un altro essere umano, per assumere i contorni di una musica preferita, o un profumo di cui era difficile rintracciare l’origine dentro la camera. Era questa, in breve, l’esistenza privata del Signor F.: diversa da quella di chiunque altro, ed infine identica a quella di ognuno.

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Un amante

Ora leggo il tuo imbarazzo, l’ostentata mitezza
del secondo giorno. Ora mi spiego il tuo pudore
malcelato, il ritegno esasperante per un collo denudato.
Soltanto adesso mi è chiara la tua vergogna, l’esitazione
del tuo sguardo che si volta quando è insediato.
Adesso, mentre un abito rosso ricopre la tua intimità,
sei più nuda che mai, e quanto la tua pelle ingenua
diceva la notte, ora si acquieta con l’arrivo del giorno.
Nell’invenzione dei tuoi indumenti assecondi un riserbo
pentito, tacendo il calore divampatoti in petto.
Tu fuggi il piacere a cui ci hai destinato, ed io
lo raccolgo in un dubbio indomato: che un amore
possa durare il tempo di un giorno, o continuare
sotto un vestito come le stelle dietro al diluvio.

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Autentico

L., al quale inaspettatamente davvero poco interessò come potesse andare a finire quel suo improvvisarsi innamorato, decise una volta per tutte di liberarsi di quanto gli era stato detto sull’amore ed i luoghi del corpo. E così prese a dirle ogni cosa, dalla più scomoda alla più gradevole, sospinto dalla precipitosa esigenza di non aver di che mentire, nel raccontarsi a lei. Al solo pensare di mascherare il torrente di emozioni viscerali consegnate alla propria voce, sentiva affievolirsi l’unicità di quell’incontro. Non volle costruire alcunché di ragionato sulle impressioni di lei. Di sicuro impedimento ad ogni più elementare calcolo cui sono affidate le relazioni tra un uomo e una donna, era il fatto che fosse bellissima, e non poco sopra la media rispetto alle sue più recondite pulsioni sessuali. Dovette fiondarsi senza alcuna esitazione, non certamente impreparato alle morbide insidie dell’universo femminile: ma stavolta vi entrò disarmato, nell’incrollabile calma di chi non tiene in mano ancora niente, ma la porge senza esitazione. Nell’ebbrezza di quella sincerità sprezzante, poté ricoprirsi della patina impavida cui fa ricorso un uomo che serba null’altro che il desiderio di lei, ed a tutto è disposto pur di appagarlo. E quando venne il momento di vedersi, conscio di ogni limitazione alla quale viene consegnata la nostra singolarità, poté contare un difetto per ognuna delle sue imperfezioni, ed ognuna di loro accoglierla attraverso le proprie. In quell’appuntamento così paritario ai suoi occhi, liberare una sensibilità che più volte aveva represso, per autenticarla nella donna che aveva rincorso.

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Fuori controllo

Posso ancora sentire il vociare di quanti affollavano la stanza, ridursi ad un lento mormorio ammansito dai fumi del vino. Ad ogni risata degli altri mi riscoprivo incapace di accodarmi al loro andamento. Annuivo in risposta a una domanda mai posta circa lo stato in cui versavo, dicendomi appagato per ognuno dei bicchieri che avevo bevuto. Ma era evidente che sedessi da solo in mezzo ai tavoli di un rifugio infondato. Non volli ascoltarti dal primissimo impulso: ma una mente ubriaca si cura ben poco di quanto si affacci al suo mondo inebriato. Mi morsi il tuo labbro mentre assediava il mio vagheggiare indifeso. Perché proprio adesso, mi attacchi nei segni incostanti che hai deposto da tempo. Neppure ci penso che ho in mano un bicchiere, ed è colmo di tutti gli inganni con cui mi conforto: in qualunque adagiarsi del mio vero ritratto. Ogni volta che fuggo il normale accadere di tutti gli eventi di cui sono l’oggetto.
Mi alzai. Non avevo altro che una disordinata schiera di amici attorno: qualcuno mi dovette chiamare, perché feci finta senz’altro di non aver sentito. E correvo, come corrono i piedi di un corpo alterato: incuranti di quanto sia calmo il loro incalzarsi agli occhi di un altro. Fu lì che mi accorsi di quella mia ebbrezza: avevo lo spasmo di un giorno sprecato, e la testa aggravata da un silenzio irrequieto. Ma è davvero questo il rumore del vizio: un graffio improvviso di tutte le cose cui indugia un pensiero fuori controllo.

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Non affrettarti

Non ti affretti altro che il pervenire al sicuro vantaggio cui ti consegna il muoverti lento, in un mondo che ha fretta. Né ti venga in mente di rincorrere i passi vaghi e imprecisi, cui si appresta chi ha riserbo soltanto del proprio tempo, non concedendosi a quello degli altri. Non anticipare i tuoi passi, poiché inciamperesti, come farebbe un bambino che si avventasse con gli occhi, dove ancora non potrebbe il resto del corpo. Arrancare è l’eterna condanna di chi ha perso fiducia nell’incedere calmo, e non sa ricamare un’istante di pace per il grigio frastuono che tiene dentro. Fermati, ora che hai il tempo. E non ti sembri insensato fermarlo in un altro. Non è vita un minuto che dura un secondo, quando ne conti il rintocco corroderti il petto. È vita poter non curarsene affatto, quando si accorda col battito esatto, di chi ti aspetta nonostante tutto.

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Imprudente

È ragionevolmente imprevedibile che ad ogni scelta
segua un turbinio di conseguenze inattese, densamente
infestanti in una qualche remota fenditura del cuore.
Ma è quanto accade ad ogni spirito imprudente,
il quale si appresti a varcare un bivio insidioso,
e ricorra all’azzardo per meglio affrontarlo.
Non è l’affanno a renderlo sbrigativo, ma
l’impenitenza di un vizio irrinunciabile:
scegliere; non perché le cose finiscano,
ma per vederle cambiare. Ad esse legarsi
e con loro mutare. Scegliere, affinché
il domani si presenti in un altro colore,
e prenda a ruotare in un modo inesperto,
e vibri di una freschezza inconsueta.
Scegliere, perché questo è il modo
che ha un animo audace di tenersi
aggrappato alla vita, afferrarla con le mani
ancora esitanti, e infine impugnarla.

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Intimità

Porterò un lenzuolo agli occhi perché tu non mi veda.
Non per timore od alcun imbarazzo: ho un corpo normale
ed affatto agognato. Nascondo soltanto la nuda apprensione
che vibra incessante per ogni difetto. È timido e vago persino
il contatto: un salto infinito divide in due parti i frammenti di
di un letto che abbiamo spartito. Ma ho mani calde nonostante tutto.
Vorrei che avvertissi quanto sia lacerante non poterle allungare
sino al tuo fianco: sarebbe un capriccio persino maldestro
rubarti ad un sonno che invidio e contemplo. Intanto dormo di un
riserbo incuriosito, di ogni occhiata cui consegno il desiderio
ripetuto. Non so ancora riprodurre i contorni della tua intimità:
ma ho una calma impaziente di saperli riunire, non appena
mi sveglio da questo torpore. Porterò un lenzuolo sino a metà
del mio viso, così che non si veda che in fondo sorrido.

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