Il mestiere del Signor F., che per comodità chiameremo semplicemente F., era di amministrare la contabilità di un’azienda di modeste dimensioni poco fuori città. Ad F. piaceva il suo lavoro. Dal Lunedì alla Domenica, fino a tarda notte, e libero da orari di lavoro troppo regolari, aveva il compito di registrare le fatture d’acquisto su un modulo elettronico, tenere d’occhio le scadenze fiscali, schedare gli incassi, preparare una nota delle spese, e cosa ben più importante, gestire gli imprevisti. Poiché, seppur modesta, l’azienda per la quale lavorava F. non era certamente esente dal soffrire l’usuale grado di incertezza cui sono destinati taluni accadimenti commerciali. Ebbene, F. non doveva soltanto trovare una soluzione di bilancio ogni qual volta si verificassero: parte integrante del suo lavoro era prevederli, con un livello di accuratezza il più vicino possibile al danno effettivo. Il fatto che F. avesse in sé un’indiscussa e oltremodo demoniaca precognizione finanziaria, faceva sì che fosse davvero tagliato per questa particolare mansione. A onor del vero, si può dire gli fosse stata cucita addosso l’abilità di far di conto, come fosse la cosa più ingenua e spontanea dell’universo. Eppure, condannato dal saperci fare così bene, agli occhi degli altri F. conduceva un’esistenza dimezzata. Tacciato di vivere nella sola compagnia dei numeri che gli erano imposti, non godeva che di una stima piatta e distaccata da parte dei colleghi di lavoro, i quali guardavano alla sua vita come a quella di un robot da cucina, esatto e irreprensibile, mentre attendevano che una meccanica obsolescenza esaurisse infine quella sua abilità impersonale. Se non altro, per potersi crogiolare sopra il pressapochismo di una condizione di acre ostilità nei confronti di chiunque fosse migliore di loro.
Quanto però era oscuro ad ognuno, era la riservata conduzione degli affetti amministrata da F. nell’intimità dei luoghi a lui più cari. Nella sua camera, oltre a una scompaginata collezione di cartoline appese alle pareti, innumerevoli oggetti dall’aspetto esotico disposti sopra i mobili senza alcuna oculatezza, e taciturni strumenti in legno acquistati in chissà quale viaggio in solitaria, poteva respirarsi l’insistente aroma di una ricercata imprecisione. La sera, il colore delle pareti, volutamente discordante in più tonalità del blu, riluceva di un’illuminazione sommessa e avvolgente, per via dell’unica lampada calda relegata in un angolo. Nella penombra dal lato opposto era sistemato un letto disfatto, ed accanto una libreria alla quale F. poteva arrivare con il solo braccio sinistro, qualora fosse disteso fra le lenzuola. Nel comodino, una serie di libri impolverati chiedeva di essere letta senza ottenere apparentemente risposta, ma in una pazienza rassicurante. Una finestra dava invece su un giardino dall’aspetto e i colori deliziosi, ma questo F. non poteva saperlo con esattezza, poiché non vi si affacciava mai e guardava la sola cima delle piante dalla scrivania sulla quale non di rado sedeva, insieme a una penna ed un foglio. A tratti, la stanza rivelava un disordine persino metodico, la cui attenzione dedicatagli faceva sì che non eccedesse mai nell’incuria. Era altresì evidente come niente della vita inconfessata di F. possedesse un numero: pareva invece che ogni cosa, nella stanza, disponesse di sé in modo libero, ma concorresse insieme alle altre a ruotare armoniosamente attorno a lui, quasi a proteggerlo in un vortice breve. Quanti amori partecipassero di quella danza era difficile a dirsi, poiché erano tante le forme assegnate all’amore dal signor F., e non era inusuale che si discostassero da quelle di un altro essere umano, per assumere i contorni di una musica preferita, o un profumo di cui era difficile rintracciare l’origine dentro la camera. Era questa, in breve, l’esistenza privata del Signor F.: diversa da quella di chiunque altro, ed infine identica a quella di ognuno.